di Umberto Laurenti
Siamo al 21 aprile, e ci ritroviamo ancora chiusi in casa, in attesa che una Commissione di Esperti ci faccia sapere quando potremo riprendere le normali attività. Per carità, è giusto che siano degli Esperti a darci indicazioni corrette rispetto ad una situazione straordinaria. Il problema è che io non credo che potranno riprendere normali attività. Non solo poiché nessuno ancora può dirci quando la pandemia finirà davvero, né se e quando tornerà, come purtroppo è avvenuto nei secoli passati: questa sarebbe solo una questione di tempi più o meno dilazionati e di precauzioni sanitarie da assumere collettivamente. La vera incognita globale, rispetto alla quale nessuno per ora sembra interessato a riflettere e proporre, è quale nuovo modello di assetto economico, sociale e culturale si svilupperà nel nostro pianeta a seguito del cambiamento epocale che si sarà verificato. Voglio essere più chiaro: la stragrande maggioranza della gente, compresa la classe dirigente politica ed imprenditoriale, è convinta che con un po' di impegno straordinario collettivo, con un po' di debito in più, con maggiore attenzione alla ricerca scientifica e alla organizzazione del sistema sanitario, con tutto questo, superata la fase pandemica, si potrà riprendere gradualmente il cammino per tornare a come eravamo prima. Sono quindi in buona fede tutti coloro che pur se malvolentieri accettano le restrizioni di questi due mesi, necessarie per tornare...a prima; sono in buona fede tutti coloro, commercianti, partite iva, piccoli imprenditori, operatori dei comparti produttivi più svariati, che chiedono allo Stato un sostegno economico per superare l'emergenza, convinti di poter tornare, con maggiore impegno e qualche rinuncia, a fare quello che facevano prima. Dovremo invece, purtroppo, far fronte all'esplodere anche violento di innumerevoli istanze sia di natura economico-sociale che politica, che ci faranno rimpiangere il periodo del distanziamento sociale e tenderanno a generare, se non governate, percorsi semplificati anche a scapito di princìpi fondamentali, per raggiungere l’obiettivo di tornare come prima. Solo per fare un esempio, in tema di difesa e protezione dell'ambiente, mettiamo in preventivo una acritica accettazione del principio che per favorire una rapida ripresa sarà bene mettere da parte gli obiettivi dello Sviluppo sostenibile! Oppure che, poiché questa esperienza ci ha dimostrato che le abitazioni debbono avere dimensioni più ampie per essere vivibili, allora bisogna prevedere un piano di nuove costruzioni, consumando altro prezioso suolo. O ancora, mettiamo in preventivo che, a causa del necessario distanziamento sociale negli aerei, nei treni , autobus e metro, tornerà ad essere accettato o addirittura incentivato il trasporto con auto private.
Qualcuno mi potrà chiedere, a ragione, se ho una risposta rispetto allo scenario catastrofico che ho appena delineato per sommi capi. Debbo sinceramente dire che no, non ho una risposta, anche perché tutto il genere umano, con le ovvie distinzioni di cultura, attitudini e tradizioni, è abituato e culturalmente attrezzato a risolvere le catastrofi, secondo il modello che chi è rimasto indenne, aiuta chi invece è rimasto danneggiato dalla catastrofe. Ma, lo ripeto, dobbiamo convincerci che non siamo stati colpiti da una catastrofe a cui rimediare, ma siamo nel pieno di un processo di totale mutamento delle condizioni di vita globali, dal quale potremo riemergere solo acquisendo una nuova visione collettiva e globale.
Non ho quindi una risposta, se non il convincimento che qualcuno si dovrà occupare di immaginare come sarà il mondo nuovo, con una nuova visione del vivere civile, convincimento al quale aggiungo anche il richiamo ad un precedente storico.
La storia conosciuta dell'umanità è stata attraversata da numerose pandemie, dalle quali l'uomo è sempre riemerso con accorgimenti sanitari sostanzialmente analoghi nei secoli e con sempre identiche parole d'ordine: “insieme ce la faremo, uniti si risorge, guardiamo avanti per il progresso", ma si è sempre trattato di pandemie, pur spaventose per numero di morti ed impoverimento conseguente, che non hanno sostanzialmente bloccato il lento ma costante cammino di crescita culturale e sociale dell'umanità. Questa volta invece siamo in presenza di una pandemia che mette in crisi i due pilastri fondamentali della umanità contemporanea: la globalizzazione e la mobilità. Solo la Grande Peste della metà del 1300, è paragonabile per dirompenza sociale a quella attualmente in corso: la risposta culturale che l'uomo seppe dare, proprio a partire dalla penisola italica, fu il Rinascimento. Saremo capaci di generare un nuovo Rinascimento? Ci saranno personalità autorevoli nel mondo, tanto per fare un esempio, che avranno il coraggio di proporre una "remissione totale del debito"?
In questi quaranta giorni forzatamente casalinghi, in tanti abbiamo dedicato più tempo alla lettura, anche per non consegnarci totalmente al bombardamento ansiogeno dei bollettini o delle bufale sul web, e così ora sappiamo molto di più sulle tante pandemie che hanno segnato i duemilacinquecento anni a noi noti. Io stesso, in un articolo su questo giornale, ho ripercorso sulla base di documenti di archivio, i resoconti delle epidemie abbattutesi su Viterbo, mia città di origine, nel 1300 e 1400.
Con delle acquisizioni sconcertanti. Nel 1470 grande mortalità in Viterbo di vecchi e di giovani per febbre e polmonite infettiva…I malati andranno fatti dormire al contrario, a pancia in sotto…Nel 1476 vengono chiuse le porte della città, sospese le scuole e le funzioni religiose; dove c’è un malato, tutta la sua famiglia viene segregata ed una sola persona può per le necessità uscire sotto controllo, i malati gravi vengono portati al lazzaretto, non c’era più chi soccorresse i malati e non si sapeva più dove gettare i morti. Non essendocene più in città, due becchini furono fatti venire da Orvieto e due cittadini ebbero i pieni poteri quali “deputati alla peste”. A seguito dell’epidemia gli amministratori cittadini dettero vita ad un Istituto che in futuro si occupasse dei vecchi e raggruppò i sei ospedali civili allora esistenti, non riuscendo però a coinvolgere i tre restanti ospedali religiosi.
Che dire? Da ogni frase si potrebbe prendere spunto per un approfondimento. Nonostante tanti progressi della scienza per cui andiamo molto fieri, su diversi aspetti siamo fermi a seicento anni fa. Infatti non eravamo pronti nel febbraio 2020, né sul piano degli studi scientifici e farmacologici, né per i modelli di organizzazione dell’emergenza e della risposta sanitaria, né per i protocolli di comportamento o per le regole da applicare. Che dire poi dello scoordinamento e addirittura sgomitamento tra Istituzioni centrali e locali o tra strutture, Comitati ed Esperti? La verità è che nei primi quindici giorni di marzo, siamo rimasti tutti imbambolati, difronte ad un fenomeno inatteso in un mondo così efficiente ed igienizzato, scossi davvero neppure dal vedere i camion che trasportavano non si sa dove le bare degli anziani. Poi ci siamo tutti scossi, indubbiamente con generosità e professionalità pressoché generali, e certamente con molti errori, gran parte dei quali dovuti ad improvvisazione, mancanza di linee guida, stress, isteria da comunicazione social. Semplicemente, avremmo dovuto rileggere prima le storie del passato e predisporre le difese verso un pericolo che, con la globalizzazione senza regole condivise, l’interconnessione dei comparti economici e la mobilità dei cittadini, diventava sempre più grande, anche perché mai davvero analizzato, e perché il virus non si ferma ai confini.
In realtà le epidemie, fino al 1700 venivano considerate sciagure inevitabili se non punizioni divine, come testimoniano i lasciti culturali delle epidemie: le opere letterarie, le opere d’arte, gli ex voto e le chiese costruite quale ringraziamento per lo scampato pericolo. Per fortuna abbiamo avuto anche degli antenati che oltre a ringraziare, si sono dati da fare, e grazie a loro abbiamo altri lasciti culturali. Basti pensare alle grandi reti di acquedotti e alle opere sotterranee per il drenaggio delle acque, frutto dell’ingegneria degli Etruschi per tentare di contrastare il nemico della loro civiltà, la malaria, capacità di ingegneria poi ereditata dai Romani.
Oppure ai butti medievali, pozzi sigillati dove veniva buttata al termine delle epidemie, la stoviglieria di famiglia, nella credenza che sui piatti e sugli altri oggetti di cucina si potessero conservare e quindi trasmettere, i germi della malattia. Veniva ritenuta, questa precauzione, così importante, che in tutto il centro della nostra penisola, nel realizzare una nuova costruzione per abitazione, la si doveva provvedere di un pozzo sigillabile, come già nel 1275 attesta una delibera del Comune di Todi. E tutti noi, nell’ammirare gli stupendi vasi di ceramica istoriata che man mano i butti riaperti ci stanno restituendo, abbiamo sorriso all’idea di quella precauzione un po' superstiziosa, salvo poi scoprire dagli studi scientifici dei giorni nostri, che il virus si trattiene su molte superfici per ore o addirittura per giorni.
Ma i nostri antenati più recenti, sono stati ancora più colpevoli, perché, accecati anziché ammaestrati dal cammino ormai inarrestabile della scienza, si sono limitati a mettere rapidamente in oblio le epidemie, anche molto estese e con grande mortalità, che pure hanno infestato il mondo negli ultimi tre secoli. Ci resta qualche articolo di giornale per quelle dal 1960 a ieri, ed una sostanziale cancellazione dalla memoria della influenza spagnola, che solo in Europa fece venti milioni di morti dichiarati.
Tutto ciò è avvenuto probabilmente per un fenomeno culturale collettivo, la volontà di uscire rapidamente dalle crisi post-epidemia e ritornare alla situazione di prima, festeggiando la vita e la gioia ritrovate.
Come ho già detto nella prima parte di questo scritto, io sono convinto, e certamente non sono il solo a crederlo, che questa pandemia sta radicalmente cambiando il mondo, sta modificando i nostri comportamenti individuali e collettivi. Il Covid-19 sta rivoluzionando le nostre abitudini, il nostro modo di relazionarci, il nostro approccio verso la mobilità, sia quella dedicata al lavoro che al tempo libero, l’assorbimento, innaturale soprattutto per la nostra cultura, dell’obbligo del distanziamento sociale, l’entrata forzosamente accelerata, e senza adeguati mezzi, nell’era dell’uso totale del digitale. Si tratta di un vero e proprio salto culturale, in termini dimensionali, temporali e qualitativi, che implica enormi nuovi interventi infrastrutturali, organizzativi, finanziari e soprattutto mentali.
Sulla base di quanto detto sopra, solo la Grande Peste del 1340 ha cambiato radicalmente i connotati dell’Europa, nostro mondo di riferimento di allora, ed il cambiamento fu così profondo e percepito, da generare un moto culturale collettivo, partito proprio dalla nostra Penisola ma certo non nazionalistico, visto che l’Italia non esisteva, denominato Rinascimento.
Non è qui il caso di addentrarci nella descrizione, peraltro già ben nota ai più, della portata innovativa, per l’arte, per la cultura e la vita sociale in generale, del Rinascimento.
Voglio solo accennare ad un aspetto poco indagato.
Nella nostra Penisola si è verificato negli ultimi duemilacinquecento anni un fenomeno significativo e caratterizzante. Pur essendo stato attraversato infatti, questo territorio, da innumerevoli invasioni, epidemie, guerre e calamità e, pur sprovvisto per lunghissimi secoli di un collante istituzionale o amministrativo, grazie ad una costante stratificazione culturale, caratterizzata dal riuso e dalla ibridazione, si è sempre potuto identificare, questo territorio, in maniera sostanzialmente unitaria, anche se con forti caratterizzazioni locali: una comunità insomma da sempre glocal. Merito, tutto ciò, del Rinascimento, che pur essendo un fenomeno culturale profondamente innovativo, seppe tramitare verso la modernità l’intero bagaglio culturale dell’antichità classica.
Rimarginando così la ferita della caduta dell’Impero romano, e replicando, a distanza di tredici secoli, quello che era stato, nel primo secolo avanti Cristo, il capolavoro dell’antica Roma, quell’innovazione istituzionale che dette humus e sostanza culturale ai risultati delle conquiste militari nonché valenza simbolica oltre che funzionale alla rete connettiva dell’impero, fatta di strade, ponti, acquedotti, fortificazioni militari, aree urbane e luoghi di svago.
Cosa avvenne nel primo secolo a.C.? Le popolazioni della Penisola che man mano si erano trovate sotto il dominio o l’influenza della crescente potenza di Roma, divenendone socie, non trovando
soddisfazione da parte del ceto dirigente romano alle proprie richieste di vedersi parificate, quanto a diritti, con i cittadini di Roma, dettero il via a sanguinose e lunghe guerre, denominate guerre sociali, quelle guerre che, prima dell’avvento delle armi da fuoco, provocarono più vittime, circa duecentomila. Quindi Etruschi, Umbri, Marsi, Sanniti, Peligni, Apuli, Frentani, Lucani, etc, danno vita, intorno al 90 a.C. alla Lega Italica con capitale a Corfinio, in Abruzzo, coniando una propria moneta dove per la prima volta compare il termine “Italia”, e sconfiggono ripetutamente l’esercito romano. Dove è il capolavoro politico di Roma? Cambiando radicalmente l’atteggiamento negativo precedente, Roma decide di concedere a tutte le popolazioni italiche il diritto di cittadinanza romana, sulla base non dello jus sanguinis o dello jus soli ma del mos maiorum. In sostanza Roma trasforma la propria sconfitta militare in vittoria, portando sotto il dominio della legge romana tutte quelle popolazioni che con Roma condividevano il mos, cioè la comunanza di ideali, mentalità, costumi: il trionfo della identità culturale rispetto alla forza delle armi.
Grazie a questa innovativa e straordinaria decisione, inizia ad esistere una civiltà italica sostanzialmente svincolata dalla logica dei confini territoriali, del potere unitario e della centralità amministrativa, che riesce a sopravvivere indenne alla caduta dell’Impero romano, ai lunghi secoli del Medioevo, al frazionamento tra Comuni, Stati e Signorie della Penisola, grazie al legame di consonanza culturale comunque perdurante, che il Rinascimento ha arricchito con un paradigma di vita così persuasivo, da poter essere esportato senza difficoltà dentro i confini di realtà statuali ben solide. Una civiltà italica che non si esaurisce all’atto della formazione dello Stato Italiano, ma perdura, unendo in una Comunità per ora solo culturale, ma ben definita in quanto a valori comuni, modi di vita, riconoscimento di simboli guida, che unisce dai 250 ai 300 milioni di persone che, nella penisola e nel mondo, si sentono Italici.
E’ presto per poter dire se nascerà un nuovo Rinascimento Italico come risposta globale al cambio epocale innescato dal Covid-19: certo ce ne sarebbe bisogno, perché gli Esperti al lavoro stanno lavorando per farci superare in sicurezza l’emergenza, ma per immaginare il futuro ci vuole molto di più. Sarebbe però miope chi pensasse di rintracciare i segnali di un nuovo Rinascimento in un eventuale nuovo assetto del Governo nazionale o in una pur vasta manovra di riequilibrio finanziario: un così radicale e partecipato moto di cambiamento culturale, non può nascere da un voto di fiducia o da una legge finanziaria, ma esclusivamente da una intelligenza riformatrice collettiva che, la storia ha già dimostrato, può nascere dal basso, nelle fasi di cambiamento epocale.