di Giovanni F. (Gianfranco) Ricci*
“Andrà tutto bene”: l’hasthag che viene urlato, sussurrato, ripetuto per farlo entrare nel nostro cuore, nella nostra mente, diventi un autentico mantra da ripetere più e più volte, da vivere e da far proprio!
Mi sia concessa una riflessione su questo hasthag: una cara amica, Suor Michela Carrozzino, Presidente di “Mediterraneo senza handicap” (onlus che persegue finalità di solidarietà sociale nei settori dell’assistenza socio-sanitaria, della ricerca scientifica, dell’istruzione ed educazione delle persone disabili, della formazione professionale e dell’orientamnento degli operatori),mi ha fatto osservare che la frase è attribuita al Signore durante un dialogo mistico con Giuliana di Norwich (1342-1416). Non so se il comunicatore 1 della frase, diventata di uso virale, sapesse di questa Giuliana, mistica veneratissima dall’Inghilterra cattolica e anglicana dal 1400. “Andrà tutto bene”, letto in questa linea interpretativa mi dà una grande serenità. Scusate questa manifestazione pubblica di una fede a cui sono molto legato; chi mi conosce bene lo sa, chi mi conosce non bene lo intuisce, io però so di non essere soddisfatto del mio cammino per cercare di essere un buon cristiano: sono in cammino da anni, eppure sono sempre così lontano dall’esserlo in modo sufficientemente accettabile. So solo che in questi giorni sto trovando conforto e voglia di fare per quel che posso e per quel che valgo proprio grazie a questo ancoraggio. Mi sono anche accorto che il cammino ha bisogno di un ancoraggio solo per tenermi ben aderente al territorio, con i piedi ben saldi sulla terra, ma il cammino è l’ansia dell’andare verso porti sicuri e leggendo in questi giorni di affanno un verso tratto da una poesia “Le Case” di Khalil Gibran: La vostra casa non sarà l’ancora, ma l’albero della nave ho compreso che l’ancoraggio della casa (della comunità dei credenti), di fatto non è un’occasione per stare fermi, ma per puntare “in altum” ed in questi giorni sappiamo bene quanto valga il desiderio, la passione di andare avanti.
Appena questa pandemia sarà finita non avremo la possibilità di “leccarci le ferite”, di lamentarci per il tanto che si è perso, anche in numero di persone e tra queste forse famigliari, forse amici e tanti troppi, anche se sconosciuti e lontani, ma di iniziare a pensare ad un’opera di ricostruzione come fecero i nostri padri a fine della prima metà del secolo scorso. Allora le nostre città erano distrutte ed anche le persone sopravvissute alcune erano ferite, alcune mutilate, tutte psicologicamente provate, ma la voglia di ricostruire era tale che tutti insieme, fossero pure guelfi e ghibellini, hanno lavorato con fatica e con tanto entusiasmo, hanno posto le basi di una nuova società, di nuovi quartieri, di nuove sfide e di nuovi obbiettivi. In quei quartieri ricostruiti tante case, tante piazze, tante fabbriche, tante scuole, tanti luoghi di aggregazione da riempire di uomini e donne. Con determinazione hanno messo le condizioni per un boom economico-sociale di grande rilievo. Si è arrivati ad un saldo attivo, incrementando annualmente di nuove nascite la popolazione e questo ha comportato un rafforzamento alla lunga del sistema scolastico. La nascita del mezzo televisivo incardinato in RAI aveva messo, tramite la dirigenza ed il personale, in cantiere una programmazione pedagogico-educativa, forse non da tutti gradita, ma che ha permesso di tessere un supplemento di unità di Italia e con il Maestro Manzi ha messo i prodromi di quel sistema di insegnamento e di apprendimento a distanza che ora, in questi tempi tragici, cerchiamo di mettere in atto, non per sostituire, soppiantandola, la relazione educativa diretta e frontale, ma per collaborare con le esigenze e le caratteristiche della relazione educativa all’interno delle nostre scuole. Prepariamoci a fare questo con determinazione e luingimiranza: avremo le città sì già costruite, ma avremo case vuote di persone e da svuotare di cose, famiglie spezzate, anziani morti. Troppo poco pensare solo ad investimenti per far partire l’economia, avviare e riavviare piccole, medie e grandi industrie e poi investire in nuove opere strutturali così tanto agognate e così avversate dai malpancisti di turno, aprire botteghe di artigianato; sarebbe troppo poco e quasi irrispettoso riprendere, nell’immediatezza del fine virus, riti come l’apericena, l’ora di palestra, i corsi di lingue straniere e di danza, una pizzata, l’acquisto di qualunque cosa che faccia tendenza. In mezzo a questi entusiasmi anche idee, progetti e finanziamenti per riavviare il cantiere scuola-formazione-università-ricerca, grazie alle performance fatte in questo periodo con tante iniziative di insegnamento ed apprendimento a distanza, per riprendere a progettare per riscoprire, rivalutare l’dentità del popolo italiano, offrendo programmi di solidarietà, di inclusione, di integrazione, di cittadinanza attiva.
Dobbiamo essere grati a tutti coloro che si impegnano nell’ora presente nei vari processi di prevenzione per rendere sempre più efficaci le terapie di cura, di protezione e salvaguardia dell’incolumità dei singoli e dei gruppi, a coloro che prendono a cuore anche aspetti minori, ma non certo meno importanti, come creare occasioni di intrattenimento, svago, loisir attraverso un uso attento della rete, nel mantenere l’ordine pubblico con un intervento forte e delicato insieme di fronte alle trasgressioni, anche quelle più banali ecc. Dobbiamo però essere sempre più convinti che il dopo covid-19 ci costringerà, in alcuni casi ci permetterà, di rivedere molte delle nostre abitudini, dei nostri modelli di comportamento non sempre esemplari. Non potremo far finta che questi drammatici mesi, che abbiamo vissuto, e che ancora viviamo, con sofferenza, con scambievole partecipazione, ma che non sono ancora terminati (il tunnel della sofferenza, della paura e dell’angoscia dà flebili indizi di luce all’orizzonte) siano facilmente dimenticabili senza lasciare cicatrici. Secondo me, ci troveremo a dover ricostruire, ma sono certo che in tanti vorremo fare la nostra parte tra i ricostruttori, ciascuno con le sue competenze, le sue possibilità, le sue capacità.
Non pensiamo di dire “andrà tutto bene” solo in relazione alla fine del contagio; il contagio lascerà quelli che sopravviveranno magari felici dell’esito, ma impoveriti culturalmente, economicamente, spiritualmente se non sapremo attivarci, singolarmente ed in gruppo, per fare squadra, se non sapremo, uniti dalla drammatica prova vissuta, ripartire da ciò che avremo conservato sia di capacità di fare, sia di risorse ancora disponibili. “Andrà tutto bene” se dopo settimane e mesi passati a parlare di “distanziamento sociale”, a fine pandemia, ritroveremo la gioia di abbracciarci, di accarezzare i nostri figli e nipoti e di lasciarci accarezzare da loro, se avremo ancora capacità di impegnarci nei nostri lavori ordinari e se scopriremo la voglia di restituire in termini di volontariato verso gli altri, quanto gli altri ci stanno dando ogni giorno a rischio anche della loro vita, se, perduto il lavoro, troveremo il coraggio di riconvertire la nostra professionalità, dimostrando ancora una volta quelle caratteristiche di voglia di fare, voglia di intraprendere così bene dimostrate alla fine dello scorso conflitto mondiale, puntando ad una rinascita del nostro paese.
Mi capitava spesso, già negli anni 80, sia con i miei allievi in Università, sia in iniziative di formazione per insegnanti e per operatori socio-educativi, di utilizzare un’immagine mutuata da Guilford secondo cui “senza educazione c’è catastrofe” e quindi di far loro notare come la conseguenza della perentorietà dell’affermazione, secondo cui lo sviluppo della nostra civilizzazione dipende dal risultato della sfida che si disputa tra educazione e catastrofe (non del tutto scontato in una società come la nostra ad alta definizione tecnologica ed a bassa tensione morale), diventa la possibilità per sfuggire da ogni possibile catastrofe millenaristica.
A questo proposito, mi è tornato in mente un vecchio film della cinematografia statunitense del 1968, mescolanza di fantascienza e fantapolitica, “Il pianeta delle scimmie” che, dopo una lunga serie di peripezie e di lotte tra uomni e scimmie antropomorfe si conclude con una scena fortemente emblematica: un umano ancora vivente dopo migliaia di anni intravvede spuntare tra pietre e sabbia la cuspide della “Statua della libertà” e conclude con un lancinante e terribile grido ”Voi uomini l’avete distrutta! Maledetti, maledetti per l’eternità, tutti!!” ed il ”the end” risulta empaticamente un altro ammutolito grande grido anche da parte degli attoniti spettatori. Scusate il tono enfatico, forse retorico: non mettiamoci in condizione che i nostri sopravvisuti alla guerra epidemiologica, dopo avventure ancora più drammatiche e devastanti, possano gridare a distanza di millenni lo stesso sconcerto e la stessa ira, vedendo le cuspidi della Mole Antonelliana di Torino, della Madonnina di Milano, del Palazzo della Signoria di Firenze, della Lanterna di Genova, della Cupola di San Pietro, della Cattedrale di Monreale, del Maschio Angioino di Napoli.
In questo andare avanti con prudenza, avvedutezza, lungimiranza, per dirla con un autore a cui devo molto, Wolfgng Brezinka (1928-2020), ci troviamo di fronte ad una grave crisi di valori, che qualcosa c’entra con la situazione corrente, e quindi ad una sfida per l’educazione. C’è l’urgente necessità di una pedagogia “pratica”, che non si perda nelle teorizzazioni sterili, ma vada dritta al cuore del problema, sporcandosi volentieri le mani nelle scuole, nelle famiglie e nelle comuità. BrezinKa muore all’alba del corrente anno (3 gennaio), ancora poche settimane e benchè anziano (aveva appena edito il primo volume della sua autobiografia nel 2019 e stava lavorando al secondo ed ultimo volume) avrebbe contribuito a stendere “il certificato di morte” di una società empia, cieca, nonostante tante illuminate parole, egoista e individualista, anarchica e populista, sovranista e collettivista e ci avrebbe ancora detto quanto fosse necessario sporcarsi le mani, scendendo in piazza, nelle anonime agorà mediatiche ed in quelle composte da donne ed uomini di quartiere e di comunità per difendere i diritti per tutti e per ciascuno di un’ imprescindibile e quindi dicibile e sostenibile educazione ai valori.
In questi giorni di distanziamento sociale e di quarantena, abbiamo il compito di mettere nel carniere tutti gli aspetti positivi che via via si vanno individuando: i tanti che lavorano indefessamente negli ospedali, nei centri di ricerca clinica al limite delle loro energie, i tanti insegnanti che, utilizzando tecnologie informatiche in questa nostra scuola che sta imparando ad utilizzarle dovendolo fare, i tanti operatori nel settore del prendersi cura delle fasce deboli, fragili, di chi si trova a vivere in situazioni di atipicità sociale temporanea o permanente che, a rischio della loro incolumità, mantengono la loro presenza sul posto di lavoro con generosità e dedizione, i tanti operatori nella produzione, trasporto e distribuzione dei generi di prima necessità della filiera alimentare e tutti gli operatori della comunicazione, dell’informazione e dell’intrattenimento che meritano la nostra attenzione ed il nostro ringraziamento.
Da parte mia un saluto a tutti con una citazione di George Bernard Shaw “Fisicamente sto venendo meno, eppure la mia mente si sente capace di crescita perché la mia curiosità è più profonda che mai, l’anima continua a marciare”, non è un addio o un vezzo scaramantico, è un arrivederci alle prossime iniziative del nostro Presidente.
*l’Autore ringrazia la redazione della Rivista “Professione Pedagogista” per essere stato autorizzato a pubblicare, sugli organi informativi della Fondazione “Sorella Natura” di Assisi, un estratto dell’intervento “Andrà tutto bene. Oggi pandemia domani sviluppo” in via di pubblicazione sulla Rivista stessa.